La Camelia

Pur essendo un bellissimo fiore, la camelia è priva di profumo. Secondo la leggenda, un giorno il dio Efesto, sorprese la moglie Afrodite in un rapporto amoroso con Ares. Pieno di sdegno, invitò tutti gli dei dell’Olimpo ad essere testimoni di tale tradimento. Continua a leggere

Atropa Belladonna – la ciliegia della pazzia

Il minore dei paradossi di questa bella pianta dai fiori violetti e dalle bacche nere portare questo nome. Tutte le parti che la compongono, contengono un alcaloide di elevata tossicità, l’iosciamina, che può trasformarsi facilmente in atropina, un veleno estremamente violento che gli valse il soprannome di erba avvelenata.
Atropa belladonna, il suo nome latino utilizzato dai botanici e dai fitoterapeuti, venne ispirato da Atropo, una delle Moiere della mitologia greca, cioè una delle tre dee del destino, figlie di Zeus e di Ananke, la dea della Legge. Delle tre “fate” greche del destino, Atropo, il cui nome significa “inflessibile”, era quella incaricata di recidere il filo con un paio di cesoie d’oro; l’analogia con questa figura infatti, deriva dall’alta tossicità di questa pianta che può provocare la morte. Conosciuto nel mondo era anche il veleno, violento e implacabile, che dà la morte, dopo delirio e follia.
Belladonna”, invece, è collegato al fatto che nel Rinascimento le donne veneziane la usavano per dare colorito al viso e per rendere le pupille più ampie e lo sguardo più scuro e brillante. Costume probabilmente introdotto dall’Asia e dall’Africa del nord. Ora, questo è proprio il potere della belladonna che, una volta che si sia assorbito uno dei suoi frutti, aumenta la tensione oculare, provoca la midriasi (dilatazione della pupilla), determina la paralisi di adattamento, l’accelerazione del battito cardiaco, aumenta la pressione arteriosa, causa una congestione dei centri nervosi.
Era una delle erbe coltivate nel giardino di Ecate, che insieme con il giusquiamo, lo stramonio e la mandragora, venivano usate dalle streghe nella preparazione degli unguenti che permettevano loro i voli notturni, in realtà “viaggi” psichici. Nel 1960 Will Erich Peukert, direttore dell’Istituto di Etnologia dell’Università di  Gottingen, si unse il corpo con una pomata a base di belladonna, preparata secondo una ricetta descritta da Giambattista Della Porta nel suo Magia Naturalis: cadde in un sonno profondo durato per circa venti ore, durante il quale ebbe tutte le visioni e sensazioni descritte dalle “streghe” partecipanti ai Sabba.
La maga Circe, herbaria per eccellenza, era figlia della “dea dei crocicchi” Ecate o Canidia, nella Roma di Augusto, e mescolava per i propri intrugli piante funebri, piume di civetta, uova di rospo, erbe della Colchide e zampe di gallina, chiamando a testimoni del proprio rituale « Nox et Diana».
Solamente l’angelica, soprannominata erba degli angeli dai medici del Rinascimento, può essere utilizzata come antidoto contro tutte le pozioni magiche e i temibili effetti della belladonna.
Un tempo nelle campagne si sconsigliava di adornarsene perché sarebbe stato di cattivo augurio e si raccomandava, quando la si voleva eliminare dal giardino o dall’orto, di svellerla evitando di tagliarla poiché le radici mozze avrebbero nuociuto alle altre piante. Divenne anche il simbolo del Silenzio, che è uno degli attributi della morte.
Anticamente, la superstizione popolare sosteneva che, collocando due piantine di belladonna davanti alla porta di casa avrebbe respinto gli spiriti impuri. Lo stesso effetto si sarebbe ottenuto con i suoi fiori e steli posti all’interno della casa. Tuttavia, dal male può nascere anche del bene perché il veleno mortale può servire anche da rimedio miracoloso e, come ogni veleno, può essere usata in minime dosi per curare varie malattie con effetti rilassanti, sedativi ed antispasmodici: agisce infatti sulle terminazioni nervose, sull’asma bronchiale e diminuisce il dolore.
Effettivamente, le proprietà naturali della belladonna, se impiegata a ragion veduta, in fitoterapia hanno effetti antispastici e sedativi; in omeopatia, invece, la belladonna è un buon rimedio per combattere l’insonnia e l’ipertensione arteriosa; particolarmente adatto a determinati individui dalle caratteristiche tipiche che rivelano un temperamento vigoroso, un carattere cerebrale e una natura predisposta ai fenomeni congestivi violenti che si manifestano il più delle volte con forti febbri diffuse, occhi brucianti e mal di testa.
Ecco una ricetta antica per la preparazione di un filtro magico adatto a farsi amare per forza.
Ingredienti:
1 coda di rospo, 3 piume di civetta, 2 ali di pipistrello, aglio, atropa belladonna, stramonio, artiglio del diavolo e mandragora q.b. prezzemolo (per preservare dalle invidie e dalle fatture).
Mettere il tutto in un casseruola, aggiungere acqua presa direttamente da una sorgente (è preferibile di montagna) e portare il tutto a ebollizione.
Mi raccomando! Il contenuto non deve aderire alla casseruola, è per questo motivo che bisogna ripetutamente girare almeno 22 volte a destra e 22 volte a sinistra.
Durante la cottura bisogna recitare quanto segue (possibilmente in dialetto, nella madre lingua: “Iu non sugnu venutu ccà pi ludari a Cristu/Ma pi attaccari a chistu/Iu lu attaccu e lu liju pi/l’intieru munnu/Iu criju e tiegnu firi/…(nome della persona) ha essiri o me vuliri”.
Traduzione: “Io non sono venuto qua per lodare Cristo/Ma per attaccare questo/Io lo attacco e lo lego/per l’intero mondo/Io credo e tengo fede/ che…(nome della persona) deve subire questo o volermi”.

Consiglio per gli sprovveduti: portare sempre in tasca dei fiorellini di angelica per garantirsi una certa immunità dai malefici.

autrice: Manuela Mariani

L’anemone

Etimologicamente, è il “fiore dei venti”, avendo il suo nome una radice indoeuropea, più specificatamente, sanscrita: ani-ti, cioè “soffiare”, a cui sembra si siano ispirati i greci per anemone, “vento”. Si tratta della stessa radice che ha dato origine ai termini anima e animus. Continua a leggere

L’Abete – l’albero magico

abeteNelle feste natalizie, come in altre del calendario cristiano, confluiscono simboli e tradizioni ereditati da culti pagani. Ne sono un esempio i canti natalizi rumeni detti colinde, da kalendae januoarii (Saturnali).
La sera del 24 dicembre i colindatori visitavano tutte le abitazioni del villaggio schiamazzando per le vie e suonando tamburi affinché il gran baccano potesse allontanare gli spiriti maligni.
Inoltre, durante i canti, i colidatori, offrivano in cambio di qualche moneta, dei ramoscelli di abete, albero considerato in tutta Europa simbolo dell’Albero Cosmico per la sua maestosità. Nell’Antico Testamento si chiama Albero della Vita, piantato al centro del Giardino dell’Eden e del quale Adamo ed Eva potevano usufruire dei suoi portentosi benefici.
Nella Roma pagana, già due o tre secoli prima di Cristo, dal 19 al 25 dicembre si festeggiavano i Saturnali in onore del dio Saturno, dio dell’agricoltura. Era questo un periodo durante il quale si viveva in pace, si scambiavano doni, si facevano sontuosi banchetti. Erano feste di gioia, di rinnovamento e di speranza per il futuro.
La tradizione di piantare ed ornare un albero nel periodo di Natale risale ai popoli germanici. Lo stesso periodo che comprende il “solstizio d’inverno” (21 dicembre) veniva festeggiato anche presso i Celti, i cui sacerdoti (Druidi), avendo notato che gli abeti rimanevano sempre verdi anche durante l’inverno, iniziarono a considerarli come un simbolo di lunga vita e cominciarono ad onorarli nelle feste invernali.
I Teutoni erano soliti, durante tale periodo solstiziale, piantare un grosso abete ornato di ghirlande e bruciare un enorme nel camino, per festeggiare il passaggio dall’autunno all’inverno. Il ceppo aveva un significato simbolico: si bruciava il passato e, dal modo di ardere del legno, si cercava di cogliere i presagi sul futuro inoltre, proteggeva dai fulmini del cielo.
La stessa notte del 21 dicembre veniva chiamata “la notte dell’abete argentato”. Questa è la ragione per cui spesso essi facevano anche bruciare un enorme ceppo di abete o addirittura un abete intero.
Da qui nasce la tradizione di addobbare l’abete con candeline accese, palle luminose e dolcetti attaccati ai suoi rami.
È attraverso l’abete che si espletava infatti il “culto della luce” da cui deriva la parola “cultura”, cioè culto di “Ur”, che significa appunto “luce”.
Tornando a parlare del ceppo, in alcune regioni italiane come l’Abruzzo e la Toscana, la sera della vigilia di Natale ogni famiglia si riuniva mettendo nel camino un ciocco d’abete dicendo: “Si rallegri il ceppo, domani è il giorno del pane. Ogni grazia di Dio entri in questa casa. Le donne facciano figlioli, le capre capretti, le pecore agnelletti, abbondi il grano e la farina e si riempia la conca di vino”. Poi i bambini, con gli occhi bendati, dovevano battere sul ceppo con un bastone recitando una canzoncina detta “Ave Maria del Ceppo” che aveva la virtù di far piovere su di loro dolci e regalini.
Sul ceppo acceso, si aggiungeva altra legna che doveva bruciare lentamente per la durata di dodici giorni. Questa antichissima usanza, doveva simboleggiare il Cristo che si era sacrificato per salvare l’umanità e sostenere l’uomo nel suo viaggio terreno.
I dodici giorni in cui il ceppo bruciava, stavano a significare i dodici mesi dell’anno ed erano in analogia al sole che, nascendo al solstizio d’inverno, avrebbe nutrito la terra per un anno intero. Per questo motivo si diceva.”domani è il giorno del pane” e si festeggiava mangiando dolci a base di farina.
L’abete è considerato dalle antiche tradizioni, una pianta magica. Talismani confezionati con la sua resina, aghi e pezzi di corteccia, assumono un potere straordinario per attirare la fortuna. È simbolo di eternità e dell’amore duraturo. Le sue pigne hanno un influsso benefico ed in molte regioni vengono regalate come protezione dai pericoli di un lungo viaggio. La pigna inoltre, era l’emblema della dea Cibale, dea della fertilità, madre di tutti gli dei che ha dato origine all’intero universo senza bisogno di intervento maschile. In antichità si faceva grande uso della resina di abete rosso con cui si preparava, mescolandola alla cera, un linimento revulsivo (Pece di Borgogna) utile nelle affezioni reumatiche e polmonari così efficace che la sua fama giunse nell’Inghilterra di Carlo I. Sempre dall’abete rosso si estraeva anche una resina detta lagrimo d’avezzo molto nota ai medici del rinascimento, che secondo loro, doveva assicurare l’umanità contro infiniti mali.
L’oleoresina, che scola per incisione della corteccia di odore balsamico, prende il nome di pece bianca o pece di Borgogna.
Viene impiegata quasi esclusivamente per uso esterno nella preparazione di unguenti irritanti o revulsivi leggeri o nella preparazione di cerotti adesivi antireumatici.

autrice: Manuela Mariani

La podomanzia

la forma dei piedi ovvero lo Specchio del Sé Superiore

Nell’antica Cina, le donne con i piedi piccoli rappresentavano la quintessenza della bellezza. Per incarnare questa idea della bellezza, i piedi delle bambine venivano fasciati per impedirne la crescita: per generazioni le donne cinesi si sottomisero agli ideali inventati dall’uomo i quali, sapevano molto bene ciò che stavano facendo. Continua a leggere

Il mito di Efesto

Il dio zoppo

Nella mitologia greca, molte divinità ci parlano del significato dei piedi che a livello simbolico rappresentano la nostra anima.
A tal proposito vorrei parlare di Efesto, un dio rifiutato dalla madre.
Efesto, noto ai romani come Vulcano, era il dio storpio del fuoco. Sembra che fu proprio Era, (per i romani Giunone) sua madre a precipitarlo giù dall’Olimpo perché non conforme alle sue aspettative.
Rifiutato e scaraventato giù dal famoso monte, non era apprezzato nell’arrogante regno di Zeus (Giove, per i romani), dove quello che contava era il potere e le apparenze.
Il più sfortunato e probabilmente il più infelice degli dei, era deforme, non conosceva con sicurezza le proprie origini, non era accettato ed era sfortunato in amore. Ma era un genio creativo e l’unico dio che lavorava.
Per quanto riguarda le sue origini, secondo la versione più nota, fu un’Era indispettita a dare i natali a Efesto per partenogenesi, come vendetta nei confronti di Zeus che aveva partorito Atena dalla testa.
Mentre Atena però, era perfettamente formata, Efesto nacque con un piede storpio.
Questo difetto umiliò Era, la quale vedendolo, rifiutò il figlio appena nato e lo scaraventò giù dall’Olimpo.
Efesto fu rifiutato anche dal padre Zeus, che regnava sul monte incontestato da tutti gli dei. L’Olimpo gli fu sempre ostile anche quando divenne adulto, tanto che quando vi si recava, era trattato da buffone e ridicolizzato. Nel suo elemento però, il lavoro nella fucina, il maestro artigiano Efesto usava il fuoco e gli strumenti del mestiere (acqua, terra, aria), per trasformare la materia grezza in oggetti di grande bellezza.
Questo lavoro alchemico, nasce dal fatto che Efesto, dopo essere stato scacciato, cadde sulla terra per essere adottato da due dee terrestri che gli diedero la possibilità di redimere se stesso. Darsi questa possibilità, simbolicamente, è un’espressione del creatore ferito e lascia queste tracce di dolore nel piede, primo elemento organico che ha contatto diretto con la Madre Terra.
L’archetipo Efesto, trasmette un profondo istinto a lavorare e a creare dalla “fucina dell’anima” attuando un processo alchemico di trasformazione liberando la bellezza e l’espressività.
Efesto, come ho già detto, era l’unico dio dell’Olimpo che aveva subito un danno fisico alla nascita, l’unica delle divinità più importanti ad essere portatrice di un’imperfezione. Egli fu escluso dall’Olimpo perché era nato con un piede storpio, il che offendeva sua madre Era e suo padre adottivo Zeus.
La deformità fisica di Efesto non può essere separata dalla ferita emotiva provocata in lui dai genitori. Come conseguenza della sua menomazione fisica e del rifiuto subito, egli divenne il dio della fucina, l’architetto dell’istinto a lavorare come modo per crescere e per guarire dalle ferite emotive.
Efesto fu respinto appena nato, quando sua madre Era, priva com’era di senso materno, vide il suo aspetto deludente e se ne liberò: un destino condiviso, a livello metaforico, da molti altri bambini che sono rifiutati emotivamente ma anche materialmente e quindi abbandonati, peggio ancora, gettati nella spazzatura, come purtroppo spesso accade.
I bambini che non sono tenuti in braccio e toccati, hanno difficoltà nella crescita e per mancanza di contatto fisico il neonato può anche morire.
Anche se il bambino rifiutato sopravvive, ciò nondimeno il danno psicologico gli provoca un danno emotivo.
Vorrei concludere con un commento di James Hillman, scrittore junghiano: I nostri genitori sono coloro che ci hanno ferito. Ognuno di noi porta una ferita genitoriale e ha un genitore ferito. L’immagine mitica del ferimento o del genitore ferito diventa l’affermazione psicologica che “il genitore è la ferita”.
Efesto in questo lavoro di trasformazione, ci insegna a utilizzare in maniera vantaggiosa le nostre ferite facendole diventare padre e madri del nostro destino.
Tratto dal libro “Dalle radici al cielo – costellazioni familiari nel mito e nell’arte con la riflessologia plantare” di Manuela Mariani – Ed. Argo Editore

autrice: Manuela Mariani

Benessere senza farmaci

Molto spesso donne che si trovano a vivere momenti di fragilità emotiva o condizioni di disagio prolungato tendono ad abusare di farmaci: antidepressivi, ansiolitici, sonniferi e quant’altro, aldilà delle stesse prescrizioni mediche. Vi si ricorre per affrontare angoscia, insicurezza, ansia, paure apparentemente difficili da sostenere o più semplicemente per provare a condurre una vita meno stressante. Continua a leggere

La ricetta dell’Innamorato

Agire, scegliere, libero arbitrio

Ogni giorno ci troviamo di fronte a mille scelte da fare, grandi e piccole che siano.
Però, a un altro livello, il conflitto nelle scelte può essere quello tra le aspirazioni della nostra personalità e quelle che provengono dalla nostra anima: quale strada seguiremo, quella che soddisfa la nostra personalità o quella che ci porta sul cammino della ricerca di ideali più profondi? Continua a leggere

La Cabalà, Tarocchi e il Cervello Umano

Il cervello è diviso in due parti: gli emisferi destro e sinistro, collegati tra loro da un ponte chiamato corpo calloso.
Nella terminologia della Cabalà le sephiroth Chokmah (Sapienza) e Binah (Intelligenza) formano due emisferi del cervello umano.
La prima Sephirah (Chokmah) ha sede nell’emisfero destro, la parte dove non giudica e non limita, riceve passivamente e si estende su una vasta area, osserva l’immagine e sintetizza il tutto senza occuparsi del particolare. È la parte che attende alla sopravvivenza, alla consapevolezza del corpo, ha reazioni automatiche e simultanee.
La seconda sephirah (Binah), risiede a sinistra e costituisce la capacità di focalizzare, criticare e giudicare. È la parte analitica, si occupa dei dettagli, procede passo passo e pezzo per pezzo, è lineare, consequenziale e consapevole del tempo.
Per sviluppare ed utilizzare entrambe le funzioni dei due emisferi, è indispensabile l’opera di un terzo “cervello” posto a metà strada fra i due emisferi e che ho già citato: “il corpo calloso”.
Alcuni cabalisti, associano questa terza parte del cervello alla sephirah Da’at, o conoscenza unificante. Si tratta della sede di un’intensa attività spirituale. È la percezione del sottile legame che unifica le varie situazioni ed eventi della vita, è la capacità di sentirsi un tutt’uno con quanto capiamo e conosciamo nella mente. IL “padre divino”, saggezza, emisfero destro, sposa totalmente la “madre divina”, intelligenza, emisfero sinistro.
Se si osserva il cervello, esso disegna un germe il cui peduncolo è costituito dal tronco cerebrale. La parte finale che costituisce lo sbocco del midollo spinale, dopo aver compiuto la risalita della colonna vertebrale, il cervello diventa un inizio che ottempera alle strutture del triangolo superiore dell’Albero della Vita.
Questo triangolo, composto dalle sephiroth Chokmah, Binah e Da’at, a livello del “corpo divino”, prende il nome di: “Grande Faccia Divina”. La Grande Faccia Divina, genera le altre sette sephiroth chiamate “Piccola Faccia Divina”, e le ricapitola tutte. Il cervello è in analogia con la carta numero 0 dei Tarocchi “Il Matto”. Il cappello del Matto infatti, è un copricapo con tre corni, e simboleggia il cervello: emisfero cerebrale destro, emisfero cerebrale sinistro con alla base il corpo calloso, un fascio di fibre nervose che garantisce la comunicazione tra gli emisferi. L’insieme dei colori del cappello del Matto è in analogia con il 7° chakra, perché simula un arcobaleno racchiuso nel prisma del colore bianco (totalità di tutti i colori). Come sappiamo, Dio comunica tramite il 7° chakra (il chakra della corona, chiamato anche profetico, in collegamento con la Sephirah Keter) ma è molto difficile accettare le indicazioni che vengono dalla follia del Matto e seguirle senza perdersi nel labirinto. Le indicazioni vengono dai sogni, dalle premonizioni, dalle analogie, dalle coincidenze cosiddette casuali, dalla divinazione: siccome il caso non esiste, gettare i dadi, estrarre delle carte, tirare le monete, avere un sogno, fare un incontro, in un certo senso tutto ciò che ci “capita” da Chokmah, può essere letto grazie a Binah.
Il Matto è lo Zero, è quindi il simbolo della divinità nella sua totale incomprensibilità, la divinità che non è né maschio né femmina né androgino, ma senza forma perché le contiene tutte: solo la zucca vuota che il Matto si porta dietro simulando una borraccia può simboleggiare il Tutto che nello stesso tempo è niente.
Ben venga quindi il detto “AVERE LA ZUCCA VUOTA”.

autrice: Manuela Mariani