Alcuni anni fa ho avuto modo di lavorare (attraverso le Costellazioni Familiari)[1] con alcune donne vittime di violenza, principalmente di violenza psicologica. Queste donne, mi hanno dato la spinta di approfondire ulteriormente questo argomento, ma soprattutto di conoscere in senso ravvicinato chi sono le donne che accettano di subire violenza fisica, psichica, emotiva, economica e via dicendo e soprattutto: perché?
Attraverso analisi statistiche, è emerso che la violenza è la prima causa di morte e di invalidità, più del cancro, degli incidenti stradali e della guerra; una realtà che non risparmia nessuna nazione, né classe sociale. Una realtà di drammi che il più delle volte si consumano tra le pareti di casa e tutte le donne possono esserne vittime senza limiti di età.
Molte volte ci troviamo a sentire storie di vita “normale”, di persone in coppia da molti anni. Una coppia, che qualche volta litiga, ma niente di più. Ma anche le brutte storie hanno un principio, e quindi una donna che potremmo chiamare “Gabriella, Marina, Rosalba” che prende di corsa i figli, afferra le poche cose a portata di mano e scappa da casa portando con se solo un bagaglio di dolore. Ma cosa spinge a far fuggire una donna così in fretta, da farla uscire di casa così come si trova e a volte anche in pantofole? E’ la paura.
La paura più insensata e angosciante per l’uomo che le vive accanto e dice di amarla perdutamente. Un solo sguardo può fare “paura”, confondere e può togliere ogni sicurezza rispetto al proprio modo di essere. Come è possibile che proprio quello sguardo della persona amata come un fidanzato, un marito, un padre o un familiare o la semplice presenza di “questa” persona fa sentire inadeguata ad ogni contesto, incapace di affrontare e risolvere qualsiasi problema una donna? Basta uno sguardo che accompagna e giudica in ogni minimo gesto quotidiano a far sentire di non essere mai come si dovrebbe essere. Addirittura, uno sguardo, “quello sguardo”, può essere su di noi, anche se “lui” non è con noi in quel momento. Quello sguardo che diventa una gabbia anche quando non esistono sbarre che possono limitare la propria libertà
Spesso, dentro la sensazione di essere inadeguate, sbagliate, inopportune e incapaci, dietro agli sguardi sfuggenti o al contrario sfidanti e disperatamente provocatori di molte donne, si possano celare situazioni di violenza psicologica, esercitata all’interno della sfera privata.
Le donne che subiscono violenza psicologica, non sono quelle donne che mostrano lividi o segni, perché questi “non si vedono”. I maltrattamenti psicologici non lasciano tumefazioni ed escoriazioni visibili nel corpo tuttavia, la violenza psicologica produce ferite in luoghi più profondi segnando la vita di chi ne è vittima. Ci sono parole che possono ferire profondamente più dei pugnali, possono essere usate per umiliare e giorno dopo giorno distruggere una persona, togliere ogni sicurezza e gioia di vivere.
Questo tipo di aggressioni attuano un processo di mortificazione psicologica attraverso parole denigratorie continue: “non sai fare nulla”, “sei proprio una persona inutile”, “che cosa vuoi parlare tu che non sei nessuno”, “solo una povera idiota potrebbe fare quello che fai tu”, “è meglio che ti togli dai piedi”, “non sei capace di fare nulla né la moglie né la madre”, ecc. Silenzi accusatori, gesti, sguardi e toni di voce di continua disapprovazione che ridicolizzano ogni cosa detta o fatta, sviluppano un lento e sottile smantellamento della propria autostima. Il clima che si viene a creare è di disapprovazione continua dove qualsiasi atteggiamento o comportamento viene ritenuto sbagliato o inadatto. E questo non tanto perché il comportamento viene preso di mira, quanto perché è presa di mira la persona in quanto tale, in ogni cosa che fa e manifesta la propria individualità. La donna che ne è vittima comincia a vivere in un continuo stato di tensione e di colpa. Le attività più elementari si trasformano in attività che inevitabilmente la mettono alla prova e la vedono sotto esame. Ogni azione necessita dell’approvazione dell’uomo/carnefice che però in realtà viene vissuto come l’unico possessore della verità, l’unico ad essere capace di poter esprimere il “giusto” giudizio sull’operato che essa mette in atto. Non è un caso che molte donne, che riescono dopo tanto tempo a condividere con qualcuno la propria realtà, non solo si vergognano e si scusano, ma sostengono di “essersela cercata” e – come intrappolate nel proprio dolore – finiscono per ritrattare, negare o non denunciare non solo per paura, ma perché “non si denuncia chi si ha amato”, “non si denuncia il padre dei nostri figli”.
La violenza che non sporca le mani perché è fatta di parole, gesti, sguardi, allusioni, offese velate o esplicite che umiliano e mortificano fino a far sentire la persona disperata e sola. Ma ciò che è ancor più devastante è vedere attuare questo atteggiamento da una persona cara, che si ama e dalla quale ci si aspetta ben altro. Esistono situazioni in cui si impedisce alla donna di uscire da sola magari adducendo motivi circa la pericolosità dei luoghi, degli orari, o trasformando la rinuncia come prova d’amore o di fedeltà. Peggio ancora è la limitazione della libertà economica, che mette la persona in condizione di dover “chiedere”, per far fronte ad ogni esigenza personale e/o familiare, questo è un ulteriore elemento che frustra la donna nella sulla libertà e nella sua dignità. Come appare in questo caso una donna? Confusa, strana, paranoica, con manie di persecuzione, esagerata, indecisa, insicura, diffidente, spaventata.
Molte donne non si rendono conto che vengono quotidianamente e continuamente manipolate dalla persona cara che hanno accanto. Credono di “conoscere” l’uomo che hanno sposato o scelto come compagno, ma in realtà, non conoscono i processi e le reazioni che vengono generati da tali violenze silenziose. Questa tipologia di uomini crea un circolo vizioso basato sulle menzogne, sui sensi di colpa e sulle paure da inculcare nell’altra: il sarcasmo, la derisione continua, il disprezzo, espresso anche in pubblico con nomignoli o appellativi offensivi, il mettere costantemente in dubbio la capacità di giudizio o di decisione, servono a destabilizzare emotivamente, senza che chi sta intorno alla donna se ne accorga, come i figli per esempio. Le donne sottoposte costantemente a questo clima iniziano a dubitare di se stesse, cominciano a dubitare dei propri pensieri, dei propri sentimenti, si sentono sempre in colpa, inadeguate e spesso si isolano o vengono isolate perché assumono comportamenti non spontanei, scontrosi, lamentosi o ossessivi con le persone che intorno non comprendono e giudicano negativamente. Così la donna resta isolata, senza appoggio.
Il confine tra una frase aggressiva dettata da semplice rabbia e una pressione psicologica vera e propria poiché le violenze invisibili procedono per gradi. In primis vi è:
Il Controllo: a poco a poco, l’amato carnefice prende il sopravvento ed è il trionfo della possessività, della volontà di dominare e comandare. Da solo stabilisce a che ora e cosa si deve mangiare, impedisce alla “sua donna” di intraprendere un lavoro o coltivare una passione, decide in maniera totalmente autonoma dove andare in vacanza o le amicizie da frequentare, come educare i figli o cosa fargli fare, dove mandarli a scuola e se frequentare parenti, nonni e amici. L’isolamento: l’uomo crea distanza dalla famiglia di origine di lei mettendola addirittura contro il suoi stessi familiari, dai suoi amici, ottenendo così che la donna si occupi solo di lui. Con il verificarsi di un completo divario dalla vita sociale, limita tutte le possibilità materiali per comunicare con l’esterno e controlla l’utilizzo di soldi, automobile, telefono. La donna da parte sua confonde questi comportamenti come una prova d’amore e di attaccamento estremo che l’uomo prova nei suoi confronti, solo quando si sentirà in trappola comprenderà che si tratta di atteggiamenti patologici dai quali doversi difendere. L’indifferenza: l’uomo ignora i bisogni e i desideri della donna e alimenta la frustrazione per tenerla in uno stato di insicurezza, evitando di parlarle, di ascoltarla, di uscire insieme, di accompagnarla dai suoi parenti, tenendole magari il broncio senza mai dare una motivazione. La gelosia patologica: chi è geloso vuole possedere la propria partner totalmente, e non sopporta che la donna sia “altro” da lui. Minacce, interrogatori interminabili, ricerche di prove, estorsione di confessioni, controllo su telefonino ed email, niente deve sfuggire al suo controllo. Non c’è spiegazione ragionevole che possa placare l’ansia del geloso patologico per via della sua incapacità di accettare una realtà insopportabile: che la propria compagna sia “altro” da lui. La denigrazione: la donna non è degna di rispetto e non ha diritto ad un’esistenza propria quindi umiliazioni, mortificazioni sul suo aspetto fisico, sui suoi amici, il suo passato etc. La partner non può indossare capi d’abbigliamento che esaltino la propria femminilità, la convince di non essere adeguata, di essere fuori luogo. Atti intimidatori e minacce: è una violenza indiretta che ha l’obiettivo di far capire quanto si è forti e cosa si è in grado di fare. Si tratta di gesti come picchiare l’animale domestico di casa, rovesciare la cena, sbattere le porte, guidare a tutta velocità oppure minacciare di togliere gli alimenti, portare via i figli o persino di suicidarsi (il che alimenta nella compagna una forte colpevolizzazione). Sottomissione e condizionamento: A poco a poco la donna perde la sua capacità di vedere distintamente quello che sta accadendo. Non si accorge affatto di subire una violenza fino a quando questa non diventa anche violenza fisica. Si sente costretta ad entrare in un circolo vizioso dal quale è difficile svincolarsi. |
Una delle gravi conseguenze visibili, e allo stesso tempo, campanello d’allarme evidente all’ambiente esterno, sono i figli, quei figli che assistono a scenate di violenze verbali o che ne sono stati/e vittime in prima persona. I bambini mostrano problemi di salute e di comportamento, tra cui disturbi di peso, di alimentazione o del sonno. Possono avere difficoltà a scuola e non riuscire a sviluppare relazioni intime positive. Possono cercare di fuggire da casa o anche mostrare tendenze suicide. A volte già da piccoli segnali i figli mostrano ciò che sta succedendo all’interno dell’ambiente domestico: le ore trascorse davanti alla tv o con i videogiochi chiusi in camera non possono distogliere da comportamenti e atteggiamenti maltrattanti che nascono proprio dalle principali figure di riferimento, modello primordiale di uomo e di donna. Così come le mamme, imparano a mettere in atto tutte le strategie necessarie al “quieto vivere”, al non fare arrabbiare papà, perché in fondo in fondo “gli vuole bene”.
I sintomi/segnali di malessere si possono individuare nei disturbi del sonno, nell’irritabilità, nell’insorgenza frequente di mal di testa e cefalee, nei disturbi gastrointestinali o in un continuo stato di apprensione, di tensione e di ansia. Questi possono essere considerati segnali di disagio di cui è opportuno verificare l’origine per poter coglierne l’evidenza consapevole delle aggressioni subite, comprendere il motivo che ha permesso tutto questo e riprogrammare il proprio significato di rispettabilità, di autostima e di responsabilità in modo che non vengano mai più oltrepassati i limiti del rispetto di se stesse.
Autrice: Manuela Mariani
[1] Le costellazioni familiari sono un metodo per poter indagare le ragioni di alcuni comportamenti ripetitivi che portano disagio nella nostra vita e di cui spesso non riusciamo a capire le cause, in quanto esse possono essere riposte nella storia delle relazioni familiari che ci hanno preceduto, e che noi semplicemente reiteriamo per amore cieco dei nostri genitori, dei nostri avi e del nostro sistema familiare di origine.